Oggi scrivo, a punta di piedi e con profondo rispetto, di un tema a me
molto caro e, ahimè, molto attuale. Probabilmente, perché mi ha toccato
personalmente qualche anno fa; un periodo, nel quale, mi sono trovata
dall’altra parte della barricata. Sono stata una familiare che ha pianto
precocemente la dipartita di un carissimo, e a me vicinissimo, parente.
I miei figli, all’epoca davvero piccoli ma allo stesso tempo
consapevoli, hanno dovuto dire addio al loro nonno. E, l’aspetto più
tragico, senza poterlo salutare. Uno strazio.
Lo strazio che percepisco e sento quando ascolto le interviste dei
familiari dei deceduti per Coronavirus: come è stato detto più volte,
uno degli aspetti più drammatici di questa tragedia è la solitudine
della morte, senza dimenticare la sua comunicazione, sovente asettica:
“Me lo ha detto il dottore al telefono”, dice la signora di Bergamo…
Proviamo solo a immaginare cosa si possa provare in una situazione del
genere. Proviamo, con uno sforzo di empatia, a comprendere l’impotenza
di un figlio che si trova stritolato, da un lato, dal proprio dolore, e,
dall’altro, dalla difficoltà a comunicare questo ai propri di figli, ai
nipoti quando sono presenti.
Eh, sì! Il nostro Paese può vantare una cura profondamente umana
dell’anziano: ho lavorato per sette anni in un Progetto di supporto
domiciliare alla non autosufficienza; un’eccellenza di Welfare di
Comunità, di Reti di supporto bio - psico - sociale, non solo a favore
di anziani non autosufficienti, ma anche per i loro caregiver familiari.
La persona anziana fa così tanto parte della nostra vita da aver creato
felici sperimentazioni di cohousing, tra costei e il mondo
dell’infanzia, negli asili e case di riposo, dove i primi diventano i
“Saggi Cantastorie” (Carubbi, 2018), oratori di tante tradizioni
popolari, di Fiabe, appunto; la sua vicinanza e la sua difesa è così
tanto sentita da aver istituito “Caffè Alzheimer”, Circoli, Centri Diurni,
Case di Riposo, RSA di eccellenza… E potrei continuare, ancora e ancora.
Ma se è vero che tutta questa facilitazione di una vita proattiva,
socializzante, comunitaria, ha permesso, nella routine quotidiana, la
promozione di un forte collante relazionale e intergenerazionale
(Carubbi, 2009), per cui l’anziano fa pienamente parte sia della Società
in cui è immerso, nonché della famiglia in cui vive , è altrettanto
fondato il fatto che questa coesistenza ha velocizzato, non volendo, lo
stesso contagio, poiché la convivenza inter – intrafamiliare, senza
dimenticare quella sociale, si è dimostrato, non volendo, uno dei
maggiori vettori della trasmissione della malattia.
Questo incipit serve, quindi, per far comprendere quanto i nipoti e i
nonni abbiano, da sempre, un rapporto privilegiato di affetto. E quanto,
da qui, sia davvero difficile e doloroso doversene separare.
Come poter spiegare, sempre che spiegare sia un verbo adeguato, ai bimbi
che il/la loro nonno/a non c’è più? Cerco di dare delle risposte,
prendendo spunto da ciò che scritto in “Paco, le nuvole borbottone e
altri racconti” (Carubbi, 2018, Alpes Italia).
La prima cosa sensata, forse banale, è non mentire: il bambino è un
essere profondamente saggio e sente tutto ciò che non esprimiamo. È un
catalizzatore di incongruenza (Rogers, 1951), di ciò che non torna.
Non mostrate, quindi, cari genitori, emozioni che non corrispondono al
vostro vero sentire. Anche se è difficile, cercate di dare loro spazio,
qualsiasi esse siano. Partite dall’accettare le vostre naturali, umane e
fisiologiche fragilità.
Quando ve la sentite, date dignità alla vostra sofferenza,
offrite elevatezza a quella dei vostri figli, dedicandole, se non doveste
riuscire a trovare sufficienti parole, uno spazio e tempo sacri, quali quelli
della Fiaba.
Soprattutto, quella inventata: “la Fiaba, intesa come atto
creativo, è un prezioso e magico luogo, un laboratorio di sperimentazione
attiva e di apertura verso la propria esperienza affettiva (Rogers, 1961), dove
poter proiettare ed elaborare molte emozioni sentite come minacciose e dolorose”
(Carubbi, 2018, p. 39).
Con l’invenzione del racconto, il bambino può dare senso
alla confusione, al dolore legittimo. Può, altresì, dare dignità al ricordo.
Può dare onore all’assenza, trasformandola in presenza simbolica. Perché è il
bambino che crea, che dà voce, attraverso la creazione di personaggi ad hoc, a
ciò che non può essere detto altrimenti (Carubbi, 2019). Dà nutrimento fecondo
alla propria autenticità affettiva.
Francesca Carubbi
www.alpesitalia.it
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