giovedì 20 agosto 2020

Frammenti sparsi

 Avete presente Guernica? Il quadro di Picasso?

Bene. In certi giorni, ci si sente così. A pezzi. Spezzettati. A pezzettini.

Frammenti sparsi, li chiamo. Come un puzzle i cui pezzi non riescono a combaciare. E tu te ne stai lì, a guardare impotente e sconsolato.

O, al contrario, tenti di incastrare qualcosa che - e lo sai bene, ma è più forte di te e vuoi insistere! - non potrà mai unirsi in modo armonico.

La fregatura, almeno credo, sta tutta qui: sul fatto che ci hanno persuasi che l'esistenza sia, in definitiva, un cerchio perfetto, armonico, privo di sbavature.

Ma di definitivo non c'è proprio nulla. E, soprattutto, di armonia.

Con ciò non voglio passare assolutamente da catastrofista (anche se, per dirla tutta, non è che brilli di ottimismo), ma constatare, almeno per la mia esperienza, che, talvolta, l'immagine dell'esistenza che più si confà a ciò che ho appreso dalle mie ossrvazioni è, appunto, il quadro di Picasso, dove di lineare non c'è nulla. 

Ma non per questo appare meno affascinante e meno veritiera

.

La vita è un po' questo: un bel rompicapo, un sentiero cosparso di tante segnaletiche che, volenti o nolenti, dobbiamo scegliere per direzionarci da qualche parte. E la destinazione non è mai certa, se non la direzione.

E che non sempre è quella giusta. Ed è qui che il sentirsi come frammenti sparsi fa capolino: quando abbiamo appreso che la strada scelta non è quella giusta, quando iniziamo a vivere di rimpianti, quando iniziamo a pensare a ciò che abbiamo lasciato durante il cammino. Alle cose perse e ritrovate. Oppure, perse per sempre.

Ma l'esistenza è questa: cercare di direzionarci verso la propria autorealizzazione. E, per raggiungere tutto questo, non possiamo esimerci dal sentire momenti di sconforto, di rabbia, di paura, di frammentazione, di scottature che bruciano l'anima, di tutto quel bagaglio, insomma, di delusioni ed errori da cui possiamo, però, apprendere per vivere appieno quella meraviglia che è la Vita Piena (Rogers, 1961).

Francesca Carubbi 

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domenica 16 agosto 2020

Cosa siginfica, per me, volersi bene

 Fermarmi. Non l'ho mai fatto sino a poco tempo fa.

Sempre di corsa. Sempre lì, a cercare in modo onnipotente e illusorio, di tappare i vuoti e le ansie quotidiane. Nonostante mi sentissi sopraffatta, iperstimolata e soverchiata dalle responsabilità e dal tran tran di tutti i giorni. Oggi, al contrario, ho scoperto quanto la routine, quella benefica, fatta di ritmi calmi e costanti, sia cosa ben diversa dal ritmo insostenibile e inarrestabile. Soprattutto, inarrivabile. Ho sempre pensato, a torto, che tutti i miei sforzi sarebbero stati, un giorno, ricompensati. Che sarei giunta a quell'ideale di perfezione che ho sempre vagheggiato: essere una donna perfetta, una madre sempre comprensiva e attenta. Attualmente, ho appreso quanto la perfezione sia, paradossalmente, più che la somma dei propri difetti: un senso di globalità intrisa di sfumature, di elementi non sempre combacianti, ma che ci caratterizzano in modo univoco.

Respirare. Non diamo mai troppa importanza al respiro. Al pneuma. Al nostro diaframma. Chi pratica Yoga, meditazione mindfulness, sa bene quanto il respirare in maniera profonda sia un toccasana per ridurre lo stress e per vivere, con meno tensione, il qui è ora. Il respiro, inoltre, ci riconnette con il nostro corpo e il nostro sé . Il respiro ci fa sentire interi quando crediamo di essere a pezzi.

Ascoltarmi. Ascoltare la propria pancia, le proprie emozioni viscerali: "Come mi sento oggi?", "Cosa sto provando in questo momento?". Ascoltarmi, senza giudizio, significa, per me, dare dignità al mio sentire, bello o brutto che sia. Significa onorare la mia Saggezza Organismica (Rogers, 1951).

Attendere. Ho sempre pensato che la mia serenità dipendesse dall'anticipare ed esaudire, in modo subitaneo, i bisogni degli altri. Quanto mio sbagliavo! Sto imparando, in tal senso, seppur con fatica, a riconoscere sempre più il mio bisogno smodato di controllo. Di totale controllo e di parvente sicurezza. Il non aspettare, nella mia esperienza, ha sempre significato difendermi dall'ignoto, dall'imprevedibilità: aiutare sempre e comunque l'altro significava non sentire le paure legate ai miei fantasmi alle mie ferite ancora sabguinanti. Imparare ad attendere è un modo per curare il mio dolore.

Gratificarmi e nutrirmi. Sto apprendendo il piacere di ciò che mi rende appagata e felice. Mi nutro di momenti di "peak experience" (Maslow, 1962): leggere, scrivere, camminare, contemplare, gustare, odorare, toccare. Adoro farmi del bene con piccoli piaceri: un bel libro, la stesura di un nuovo libro o articolo, una lunga e silenziosa camminata, la mia musica classica, le luci soffuse, un buon bicchiere di vino, l'aroma del caffè, il piacere dei sensi e sessuale, le mie tisane, l'ombra di un albero, il silenzio della campagna, la meditazione... insomma, cerco di nutrirmi di tutto ciò che possa promuovere il mio senso di benessere.

Accettarmi. Accettare la mia ipersensibilità, , la mia suscettibilità, la mia suggestionabilità. Il fatto che, talvolta, faccio ancora tanta fatica a porre dei limti, a non sentirmi così dipendente da frondermi con l'altro. La mia ansia, i miei sbalzi di umore, il mio sconforto, le mie esplosioni rabbiose. Le mie lacrime, le mie paure e ossessioni. Sto imparando, in soldoni, ad accettare la mia Ombra che altri non è che un pezzo fondamentale della mia Umanità..

Sto apprendendo, allora, a fare delle mie ferite e della mia singolarità la mia Tendenza Attualizzante (Rogers, 1980).

Francesca Carubbi

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venerdì 7 agosto 2020

Se la gentilezza salva il nostro essere

 Si dice che la bellezza salvi il mondo. Io credo, dalla mia esperienza, che sia più la gentilezza a salvarci dall'abisso dei nostri Demoni e trasformarli in Daimon , quindi in vocazione esistenziale o, per dirla alla rogersiana, in tendenza attualizzante (Rogers, 1980).

Gentilezza intesa come atto d'amore verso il proprio sé, con le sue fratture, ferite, inciampi, storture.

Da qui, se ho appreso una cosa fondamentale in qualità di psicoterapeuta e cliente, è che passiamo buona parte del nostro percorso di cambiamento ad odiarci, a maledire il nostro modo di essere, ad essere arrabbiati con noi stessi e con il mondo. 

Con ciò non voglio assolutamente asserire che non bisogna farlo. Anzi! L'entrata nei propri inferi lo ritengo un passaggio obbligato per il processo di mutamento: è solo nel momento in cui accettiamo il Mostro che è in noi, che possiamo davvero elevarci alla Bellezza che abbiamo sempre posseduto ma che non ci siamo mai legittimati a coglierla e farne, da qui, Arte, Vocazione, Attualizzazione.

Fare, in altre parole, dei propri sintomi, angosce, sconquassamenti interiori, strumento di fioritura, di benessere.

Chi ha sofferto molto sa bene quanto le ferite dell'anima non possano scomparire ma, al contrario, riattivarsi in momenti di stress, con tutto il carico di sopraffacente emotività che ne consegue.

Ecco: essere gentili con sé stessi significa, in primis, imparare a riconoscere i momenti in cui iniziamo a sentirci soverchiati e minacciati, senza distorcere e negare nulla alla coscienza (Rogers, 1957). Essere congruenti, appunto, e rispettosi verso ciò che ci sta suggerendo il nostro organismo.

Essere gentili, allora, è riuscire, pian piano, a fare pace con la propria storia, con il proprio passato, con il proprio modo di essere unico e irripetibile. Significa riuscire a spogliarsi dei ripetuti giudizi che hanno avuto il potere di alienarci, di farci sentire sbagliati.

Significa poterci osservare come si ammira un bellissimo tramonto (Rogers, 1980): senza volontà di mutarne le sfumature di colore, senza pretesa alcuna di modificarne la durata o l'intensità di luce.

Il cambiamento gentile può avvenire, allora, come ci insegna Carl Rogers, solo nel momento in cui mi accetto per come sono. Con tutte le proprie sfumature esistenziali, profondamente uniche e soggettive.

Francesca Carubbi 

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