domenica 1 novembre 2020

L'importanza dei riti

 Con il tempo, ho appreso l'importanza dei riti. Di quelli portati avanti con il cuore e l'anima. É un qualcosa che ho imparato durante il lockdown: dedicare tempo alla cura di me, alla cura degli spazi, concentrandomi nel “qui e ora” del presente.

Ad esempio, assaporare con calma l'aroma del caffè in silenzio, gustare il sapore dolce di un biscotto al cioccolato, ascoltare, emozionandomi, le mie melodie preferite, passeggiare immersa nella natura, massaggiare e frizionare il corpo con la mia lozione preferita, leggere e scrivere, sono tutti riti che, per quanto possano sembrare banali o scontati, sono divenuti istanti preziosi che mi fanno sentire presente a me stessa, concentrata e, soprattutto, Centrata.

I riti possono essere di tanti tipi, a seconda delle persone che li mettono in pratica. L'importante è che siano momenti gratificanti. 

Non esiste, infatti, un rito migliore di un altro, ma è la nostra Saggezza interiore che decide cosa le piace o cosa, al contrario, no (Rogers, 1951).

In questo senso, allora, scegliere un rito piuttosto che un altro, significa tendere l'orecchio al proprio mondo interiore, ascoltando con empatia, autenticità e accettazione (Rogers, 1957) ciò che suggerisce, come bontà e soddisfazione, il nostro Organismo.

Da qui, scegliere un determinato rituale vuol dire facilitare la propria Tendenza Attualizzante (Rogers, 1951; 1980), ossia nutrire la propria sete di vitalità e proattività. Vuol dire entrare di diritto all'interno di quell'avventura meravigliosa che si chiama Vita Piena (Rogers, 1961). Dedicarsi con costanza, pazienza e perseveranza alla realizzazione e compimento dei propri riti, permette di entrare sempre più in contatto con il proprio vero sé (Rogers, 1951), con le propri bisogni e desideri spesso silenti, con quella parte di noi che spesso dimentichiamo per strada, così presi da tran tran quotidiano, spesso alienante e caotico. 


giovedì 20 agosto 2020

Frammenti sparsi

 Avete presente Guernica? Il quadro di Picasso?

Bene. In certi giorni, ci si sente così. A pezzi. Spezzettati. A pezzettini.

Frammenti sparsi, li chiamo. Come un puzzle i cui pezzi non riescono a combaciare. E tu te ne stai lì, a guardare impotente e sconsolato.

O, al contrario, tenti di incastrare qualcosa che - e lo sai bene, ma è più forte di te e vuoi insistere! - non potrà mai unirsi in modo armonico.

La fregatura, almeno credo, sta tutta qui: sul fatto che ci hanno persuasi che l'esistenza sia, in definitiva, un cerchio perfetto, armonico, privo di sbavature.

Ma di definitivo non c'è proprio nulla. E, soprattutto, di armonia.

Con ciò non voglio passare assolutamente da catastrofista (anche se, per dirla tutta, non è che brilli di ottimismo), ma constatare, almeno per la mia esperienza, che, talvolta, l'immagine dell'esistenza che più si confà a ciò che ho appreso dalle mie ossrvazioni è, appunto, il quadro di Picasso, dove di lineare non c'è nulla. 

Ma non per questo appare meno affascinante e meno veritiera

.

La vita è un po' questo: un bel rompicapo, un sentiero cosparso di tante segnaletiche che, volenti o nolenti, dobbiamo scegliere per direzionarci da qualche parte. E la destinazione non è mai certa, se non la direzione.

E che non sempre è quella giusta. Ed è qui che il sentirsi come frammenti sparsi fa capolino: quando abbiamo appreso che la strada scelta non è quella giusta, quando iniziamo a vivere di rimpianti, quando iniziamo a pensare a ciò che abbiamo lasciato durante il cammino. Alle cose perse e ritrovate. Oppure, perse per sempre.

Ma l'esistenza è questa: cercare di direzionarci verso la propria autorealizzazione. E, per raggiungere tutto questo, non possiamo esimerci dal sentire momenti di sconforto, di rabbia, di paura, di frammentazione, di scottature che bruciano l'anima, di tutto quel bagaglio, insomma, di delusioni ed errori da cui possiamo, però, apprendere per vivere appieno quella meraviglia che è la Vita Piena (Rogers, 1961).

Francesca Carubbi 

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domenica 16 agosto 2020

Cosa siginfica, per me, volersi bene

 Fermarmi. Non l'ho mai fatto sino a poco tempo fa.

Sempre di corsa. Sempre lì, a cercare in modo onnipotente e illusorio, di tappare i vuoti e le ansie quotidiane. Nonostante mi sentissi sopraffatta, iperstimolata e soverchiata dalle responsabilità e dal tran tran di tutti i giorni. Oggi, al contrario, ho scoperto quanto la routine, quella benefica, fatta di ritmi calmi e costanti, sia cosa ben diversa dal ritmo insostenibile e inarrestabile. Soprattutto, inarrivabile. Ho sempre pensato, a torto, che tutti i miei sforzi sarebbero stati, un giorno, ricompensati. Che sarei giunta a quell'ideale di perfezione che ho sempre vagheggiato: essere una donna perfetta, una madre sempre comprensiva e attenta. Attualmente, ho appreso quanto la perfezione sia, paradossalmente, più che la somma dei propri difetti: un senso di globalità intrisa di sfumature, di elementi non sempre combacianti, ma che ci caratterizzano in modo univoco.

Respirare. Non diamo mai troppa importanza al respiro. Al pneuma. Al nostro diaframma. Chi pratica Yoga, meditazione mindfulness, sa bene quanto il respirare in maniera profonda sia un toccasana per ridurre lo stress e per vivere, con meno tensione, il qui è ora. Il respiro, inoltre, ci riconnette con il nostro corpo e il nostro sé . Il respiro ci fa sentire interi quando crediamo di essere a pezzi.

Ascoltarmi. Ascoltare la propria pancia, le proprie emozioni viscerali: "Come mi sento oggi?", "Cosa sto provando in questo momento?". Ascoltarmi, senza giudizio, significa, per me, dare dignità al mio sentire, bello o brutto che sia. Significa onorare la mia Saggezza Organismica (Rogers, 1951).

Attendere. Ho sempre pensato che la mia serenità dipendesse dall'anticipare ed esaudire, in modo subitaneo, i bisogni degli altri. Quanto mio sbagliavo! Sto imparando, in tal senso, seppur con fatica, a riconoscere sempre più il mio bisogno smodato di controllo. Di totale controllo e di parvente sicurezza. Il non aspettare, nella mia esperienza, ha sempre significato difendermi dall'ignoto, dall'imprevedibilità: aiutare sempre e comunque l'altro significava non sentire le paure legate ai miei fantasmi alle mie ferite ancora sabguinanti. Imparare ad attendere è un modo per curare il mio dolore.

Gratificarmi e nutrirmi. Sto apprendendo il piacere di ciò che mi rende appagata e felice. Mi nutro di momenti di "peak experience" (Maslow, 1962): leggere, scrivere, camminare, contemplare, gustare, odorare, toccare. Adoro farmi del bene con piccoli piaceri: un bel libro, la stesura di un nuovo libro o articolo, una lunga e silenziosa camminata, la mia musica classica, le luci soffuse, un buon bicchiere di vino, l'aroma del caffè, il piacere dei sensi e sessuale, le mie tisane, l'ombra di un albero, il silenzio della campagna, la meditazione... insomma, cerco di nutrirmi di tutto ciò che possa promuovere il mio senso di benessere.

Accettarmi. Accettare la mia ipersensibilità, , la mia suscettibilità, la mia suggestionabilità. Il fatto che, talvolta, faccio ancora tanta fatica a porre dei limti, a non sentirmi così dipendente da frondermi con l'altro. La mia ansia, i miei sbalzi di umore, il mio sconforto, le mie esplosioni rabbiose. Le mie lacrime, le mie paure e ossessioni. Sto imparando, in soldoni, ad accettare la mia Ombra che altri non è che un pezzo fondamentale della mia Umanità..

Sto apprendendo, allora, a fare delle mie ferite e della mia singolarità la mia Tendenza Attualizzante (Rogers, 1980).

Francesca Carubbi

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venerdì 7 agosto 2020

Se la gentilezza salva il nostro essere

 Si dice che la bellezza salvi il mondo. Io credo, dalla mia esperienza, che sia più la gentilezza a salvarci dall'abisso dei nostri Demoni e trasformarli in Daimon , quindi in vocazione esistenziale o, per dirla alla rogersiana, in tendenza attualizzante (Rogers, 1980).

Gentilezza intesa come atto d'amore verso il proprio sé, con le sue fratture, ferite, inciampi, storture.

Da qui, se ho appreso una cosa fondamentale in qualità di psicoterapeuta e cliente, è che passiamo buona parte del nostro percorso di cambiamento ad odiarci, a maledire il nostro modo di essere, ad essere arrabbiati con noi stessi e con il mondo. 

Con ciò non voglio assolutamente asserire che non bisogna farlo. Anzi! L'entrata nei propri inferi lo ritengo un passaggio obbligato per il processo di mutamento: è solo nel momento in cui accettiamo il Mostro che è in noi, che possiamo davvero elevarci alla Bellezza che abbiamo sempre posseduto ma che non ci siamo mai legittimati a coglierla e farne, da qui, Arte, Vocazione, Attualizzazione.

Fare, in altre parole, dei propri sintomi, angosce, sconquassamenti interiori, strumento di fioritura, di benessere.

Chi ha sofferto molto sa bene quanto le ferite dell'anima non possano scomparire ma, al contrario, riattivarsi in momenti di stress, con tutto il carico di sopraffacente emotività che ne consegue.

Ecco: essere gentili con sé stessi significa, in primis, imparare a riconoscere i momenti in cui iniziamo a sentirci soverchiati e minacciati, senza distorcere e negare nulla alla coscienza (Rogers, 1957). Essere congruenti, appunto, e rispettosi verso ciò che ci sta suggerendo il nostro organismo.

Essere gentili, allora, è riuscire, pian piano, a fare pace con la propria storia, con il proprio passato, con il proprio modo di essere unico e irripetibile. Significa riuscire a spogliarsi dei ripetuti giudizi che hanno avuto il potere di alienarci, di farci sentire sbagliati.

Significa poterci osservare come si ammira un bellissimo tramonto (Rogers, 1980): senza volontà di mutarne le sfumature di colore, senza pretesa alcuna di modificarne la durata o l'intensità di luce.

Il cambiamento gentile può avvenire, allora, come ci insegna Carl Rogers, solo nel momento in cui mi accetto per come sono. Con tutte le proprie sfumature esistenziali, profondamente uniche e soggettive.

Francesca Carubbi 

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giovedì 30 luglio 2020

Questione di coraggio

Seneca auspicava che le scelte di un essere umano potessero riflettere le sue speranze e non le sue paure. Una questione di coraggio, dunque.
Coraggio è un parola dall'etimologia interessante e affascinante: deriva dall'unione tardo latina di due vocaboli: il sostantivo "cor" è il verbo "habere". Avere cuore.
Agire con il cuore, allora.
il coraggio, infatti, è una saggia virtù che nasce dal nostro interno. Per dirla con parole rogersiane, il coraggio nasce dall'ascolto della propria Saggezza Organismica (Rogers, 1951). 
il coraggio, dunque, contraddistingue la "Vita Piena" (Rogers, 1961), ossia l'esistenza vissuta nel pieno del fluire dell'esperienza, al di là di ciò che è giusto o sbagliato, al di là di categorie precostituite, al di là di facili consigli, al di là di preconcetti, di stereotipi sterili e inflessibili.
Il coraggio è vivere secondo le proprie aspettative e non secondo quelle degli altri. Coraggio è seguire la propria direzione esistenziale. Quella che scegliamo ogni giorno. Quella per cui lottiamo con le unghie e con i denti. 
Coraggio è vivere testimoniando la propria verità agli occhi del mondo.
Coraggio è, dinanzi ad una scelta difficile, chiudere gli occhi e tappare le orecchie per ascoltare il proprio respiro, per sentire le proprie emozioni, per interrogare i propri pensieri.
Coraggio è accettare che non sempre gli altri potranno comprenderci e accettarci. 
Che per autorealizzarsi, forse, dovremo recidere qualche ramo secco che ostacola il nostro cammino.
Coraggio è dare compimento alla propria vocazione. Seguire i propri desideri, le proprie passioni. 
Coraggio è coltivare l'Amore, quello con la A maiuscola.
Coraggio è onorare la nostra soggettiva e unica Umanità.
Coraggio è, in fin dei conti, seguire il cuore.

Francesca Carubbi
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lunedì 20 luglio 2020

Etica ed empatia


“Se non sono d’accordo con altra gente, posso alzare i tacchi e svignarmela; ma non posso svignarmela da me stessa […]." (Arendt, 1965 – 1966).
Questa frase, molto evocativa e profonda, è tratta dal bellissimo libro di Vito Mancuso “La paura e il coraggio” (Garzanti, 2020).

Hanna Arendt, infatti, descrive in modo molto incisivo il significato psicologico del Bene: il Bene è la virtù dell’empatia, del rispetto, che si declinano in comportamenti responsabilmente saggi. 

Come sostiene Carl Rogers, infatti, l’uomo saggio è colui che ha imparato a modificarsi grazie all’apertura all’esperienza (Rogers, 1961), all’apertura, quindi, ai continui apprendimenti suggeriti dalla stessa,  intesa come campo fenomenico – relazionale (Rogers, 1951), all’interno di una dialettica dialogica “Io – Tu” (Buber, 1954),  in cui vive: in definitiva, l’uomo saggio è colui che, grazie ad una continua educazione, sa attingere dai propri valori profondamenti etici e rispettosi di sé e dell’altro. 

Un uomo saggio, da qui, è colui che sa empatizzare profondamente con l’ambiente che lo circonda e comportarsi di conseguenza.

Come sostiene lo stesso Autore, infatti, “[…] La violenza può aver luogo solo se sia scomparsa qualsiasi fede nel valore e nella dignità della persona ingiustificata non può manifestarsi dove esiste la convinzione che ogni individuo ha un diritto inalienabile alla <vita, alla libertà e alla ricerca della felicità>. Perché possano avvenire insensati attacchi interpersonali deve essere stata completamente eliminata la polarizzazione della persona: per l’aggressore, la vittima non è una persona, altrimenti non l’assalirebbe” (Rogers, 1977, trad. it., pp. 227 – 228).

Quindi per agire il Bene, è necessario che l’Essere Umano sviluppi Empatia, ossia quell’importante funzione definita dalla neuropsicologia “simulazione incarnata” (Gallese, 2005).

Che, quindi, apprenda la capacità di incarnare quel particolare ascolto del “come se” (Rogers, 1957), indispensabile per comprendere chi ha dinanzi: come ci suggerisce Linn Hunt (2010) l’empatia può nascere solo nel momento in cui mi accorgo che l’altro è simile a me. O meglio, solo nel momento in cui rendo consapevole il fatto che lo Straniero o l’Estraneo rappresenta una parte di me che distorco e nego alla mia coscienza (Rogers, 1951). 

Per fare del Bene – quindi, per essere empatici -  infatti, non possiamo esimerci dal conoscere e accettare il Male che è, in primis, dentro di noi.

In tal senso, le fiabe, grazie alla presenza del loro “lato oscuro”(Castello, 2016), rappresentato, senza censure, dall'antagonista (Carubbi, 2018; 2019) – ad esempio, la Strega Bistrega de “Il Bambino nel Sacco”, o “Barba Blu” di Perrault o, perché no?, la Regina invidiosa di “Sole, Luna e Talia” di Basile –   ci fanno apprendere come il Male, che proiettiamo al di fuori, sia una forza tanto forte quanto il Bene.

 Una forza così trainante che, se non conosciamo e non integriamo nella nostra personalità, ci fa agire, paradossalmente, in modo violento e, da qui, non etico.

Francesca Carubbi
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sabato 6 giugno 2020

Di giudizi, parole e altri macigni


Avete presente la sensazione di dolore quando vi tagliate o vi bruciate? Quel pulsare pungente della pelle, quel bruciore intenso che sembra non passare mai?

Ecco. Le parole, quelle cattive che pesano come macigni, possono provocare ferite e ustioni alla nostra anima.

Le parole avvelenate diventano giudizi gratuiti che colpiscono alle spalle e che mirano al cuore.

I giudizi hanno questo potere: di sedimentarsi e diventare verità inesorabili. Diventano voci interne, sadiche e senza pietà. I giudizi, inoltre, sono voraci e sempre affamati. Per sopravvivere hanno bisogno di nutrirsi della nostra bassa autostima, dello scarso valore che ci attribuiamo, della nostra indegnità.

Anche se le cose sembrano andare bene, ecco che una vocina subdola e strisciante ci suggerisce, come una eco molesta, che non ci meritiamo legittime soddisfazioni personali o che, magari, non possiamo complimentarci con noi stessi per un buon lavoro svolto. 

Da dove nascono le parole giudicanti? Da molto lontano. E, soprattutto, non da noi. I giudizi non sono nostri, non fanno parte del nostro bagaglio genetico, ma li ereditiamo da altri. 

I giudizi penetrano in noi tramite parole altre.  Parole estranee e straniere, ma che, come ci insegna Carl Rogers (1951), per non perdere l’amore e la considerazione di chi si prende cura di noi e di chi vogliamo bene, facciamo nostre.

Le facciamo così tanto nostre che iniziamo a credere di essere davvero come ci descrivono gli altri.

Le facciamo così tanto nostre che cominciamo a perdere la nostra Bussola e a non aver più fiducia nella nostra Verità interiore.

Il giudizio inizia la sua opera nell’infanzia, quando cerchiamo di raddrizzare e normalizzare, secondo i nostri desideri, valori e bisogni, tutte le imperfezioni che vediamo nel bambino, soprattutto quelle che hanno a che fare con il suo Modo di Essere (Rogers, 1980): il bambino è troppo agitato o è troppo calmo; non ride mai o ride spesso; è chiassoso o è taciturno; è molto timido o troppo estroverso ecc.

L’Essere del bambino, inoltre, sempre in un’ottica giudicante, è spesso inserito all’interno di uno schema valoriale basato sul raffronto con altre esperienze, naturalmente diverse  ma che vengono elevate a verità oggettiva, inappellabile : “Vedì? Luca non piange come te!” o “Cerca di impegnarti come Sara a scuola…” o, perché no?, “Giulia danza meglio di te…”

I confronti, infatti, sono la benzina elettiva dei giudizi: sono parole che, mano a mano, si sedimentano nell’identità del bimbo, causando, da qui, una progressiva identificazione con esse; identificazione che non permette, ahimè, una facilitazione della sua unicità e irripetibilità in qualità di Essere Umano.

Come risultato “il bambino impara ben presto che non può avere fiducia in ciò che è veramente, in tutte le sue sfumature esistenziali, ma che per essere amato e non abbandonato, deve rinnegare la sua vera natura e adeguarsi alle richieste degli adulti” (Carubbi, 2018, p. 23).

Riassumendo, il giudizio, veicolato attraverso la parola dura e senza appello, fa sì che il bambino venga considerato solo  in modo condizionato (Rogers, 1951): i bambini giudicati, allora, sono “bambini accettati condizionatamente, ossia a condizione che esaudiscano i nostri tempi, i nostri bisogni e i nostri desideri” (Carubbi, 2018, p. 23). 

Allora, quando siamo davanti a un bambino, ricordiamoci, come ci ricorda Alda Merini, di scegliere "con cura le parole da non dire”. 

© Francesca Carubbi
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giovedì 14 maggio 2020

Giochi in un tempo sospeso


In questi giorni, abbiamo recuperato un pallone di plastica; uno di quelli che si usano per giocare in spiaggia, per intenderci.

Un pallone che si è trasformato in tante cose: una palla da basket, una palla avvelenata o che scotta, una palla da afferrare, una palla da cui scappare…

Un pallone che ci ha aiutato, a me e i miei figli, ad attraversare un tempo sospeso.
Un tempo incerto e, a tratti, confuso. Un tempo veloce e uno lento. Un tempo anche svogliato ed annoiato.

Un pallone che ci ha permesso di viaggiare con la fantasia, nonostante i pochi metri quadri a disposizione e la mancanza di un terrazzo.

Un pallone che ci ha fatto ridere a crepapelle.

In questo tempo da ricostruire, il pallone e tanti altri oggetti e spazi – magari, sino ad oggi, dati per scontati – ci hanno offerto materiale per creare, per giocare: abbiamo riscoperto il valore di una porta socchiusa, come nascondiglio, per giocare a nascondino; di una parete per contare a “uno due tre stella”; di un gessetto e un pavimento per saltellare a “campana”; di uno scampolo di stoffa per rincorrerci a “ruba bandiera”…

In tal senso, Donald Winnicott ha sempre sostenuto che il gioco fosse l’apoteosi della creatività umana, ciò che permette all'essere umano di sentirsi integro, di scoprire il proprio sé all'interno di un fluire esperienziale sempre cangiante e, per questo, ricco di incognite: “è nel giocare e soltanto mentre gioca che l’individuo, bambino o adulto, è in grado di essere creativo e di fare uso dell’intera personalità, ed è solo nell'essere creativo che l’individuo scopre il sé” (Winnicott, 1971).

Il gioco, allora, è fondamentale perché dà un senso al reale. Perché può dare respiro ad un’angoscia che rischia di essere annichilente; per il fatto che può offrire catarsi ad emozioni talvolta sopraffacenti, offrendo la possibilità di mettere in scena le proprie speranze e paure. 

Il gioco, allo stesso tempo, può nutrirci di gaiezza, leggerezza e serenità: aspetti che, se presenti, aiutano a vivere momenti esistenziali dolorosi.

Può, in soldoni, come ci insegna Winnicott, farci sentire interi in quei momenti in cui rischiamo di spezzarci.


Francesca Carubbi
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venerdì 1 maggio 2020

Se il Primo Maggio ha valore di ricostruzione


Oggi è un Primo Maggio particolare. In questo anniversario si celebra e onora il Lavoro, quello con la “L” maiuscola.

Il Lavoro  che fa sentire l’essere umano realizzato, fiero, partecipe della Comunità in cui vive. 

Quello che crea empowerment, libertà e responsabilità.

 Il Lavoro per cui abbiamo studiato anni.

Il Lavoro che abbiamo scelto, che abbiamo costruito con sacrifici, che abbiamo cercato e cercato.

Il lavoro che non arrivava mai e che non ci ha fatto dormire intere notti.

Il Lavoro che abbiamo conquistato e che, ora, ce lo teniamo stretto, con le unghie e con i denti.

Il Lavoro ai tempi di una Conciliazione sempre più complicata.

Il Lavoro da organizzare e programmare; il Lavoro dei salti mortali, per cui i funamboli rispetto a noi, in fin dei conti, sono dei dilettanti

Lo Smart Working, che di Smart ha davvero poco.

Il Lavoro che abbiamo perso e ritrovato. Ma anche il Lavoro che ancora non c’è.

Il Lavoro che ci fa paura. Che, nonostante il rischio, lo portiamo avanti con abnegazione e passione.

Il Lavoro che abbiamo dovuto scegliere, perché altro non c’era, perché l’affitto, le bollette, le rette scolastiche, i vestiti dei figli, perché l’apparecchio per i denti, quelle scarpe ormai troppo strette e consunte non potevano attendere.

Il Lavoro, allora, che abbiamo dovuto imparare ad accettare, a farcelo sentire comodo come un vestito stretto, nonostante la delusione e la rabbia.

Il Lavoro che ci fa dire, a denti stretti, “almeno sono fortunato. C’è ancora chi il lavoro non ce l’ha”.

Il Lavoro voluto e scelto e il Lavoro che, al contrario, ha scelto noi.

Tutti questi Lavori che, oggi, rischiano di non ripartire, di arenarsi. 

Lavori che, volenti e nolenti, dobbiamo ricostruire, dalle “macerie” che il Covid sta lasciando dietro di sé.

Ecco, allora, l’augurio che faccio a tutti noi: che il Primo Maggio diventi anniversario di ricostruzione di un Lavoro che rischia di perdere il suo valore più vero, ossia la nostra dignità-

© Francesca Carubbi

mercoledì 22 aprile 2020

Cosa porterei via...


Se la quarantena fosse una valigia, cosa porterei via?

Le mie mascherine di cotone, il disinfettante spruzzato in tutta la casa, il termometro a infrarossi.

 Le lezioni a distanza. Le mie consulenze online.

La mia paura del buio. I miei sbalzi di umore, Il batticuore e i pensieri spesso uguali a se stessi. Le mie ipocondrie, i miei timori, ma anche le mie speranze e sprazzi creativi.

I miei quaderni, pieni di appunti, di disegni e di idee. Le mie serate trascorse a giocare Monopoli. I miei libri, i miei scritti e le mie calde coperte. I miei pigiami improponibili. 

Le mie mani diventate ruvide per i continui lavaggi. I miei capelli di un colore sbiadito e il mio smalto non più intatto.  Ma, allo stesso tempo, i miei tentativi di conservare una routine di cura.

La tristezza e la rabbia, i litigi livorosi e le riconciliazioni amorevoli. La difficoltà a dover condividere spazi angusti e il vitale bisogno di custodirne uno tutto per sé.

Il fare i conti con il senso di precarietà e di vulnerabilità. Con il fatto che, per quanto cerchiamo in tutti i modi di porre un controllo sulla nostra Vita, qualcosa sfugge sempre.

Porterei via anche la terribile mancanza degli abbracci. Quelli veri, che ti scaldano il cuore e il resto.
La mancanza del brivido di un bacio, della spontaneità dei gesti che, sino a ieri, davamo per scontati.

Porterei via il panorama silenzioso che vedo dalla mia finestra. La nostalgia dei miei figli, le loro fatiche, ansie e momenti di resilienza. I loro tentativi di trasformare la realtà in modalità creativa. I loro pianti e sorrisi. 

La loro noia, ma anche il loro divertimento. I loro salti sul letto e le lettura insieme.

Porterei via la loro emozione incredula nell’incontrare virtualmente i loro compagni e le loro maestre. La loro gioia nel poterli salutare, seppur per poco. Ma porterei via pure il loro desiderio di riprendere una vita abbastanza normale, i loro ricordi agrodolci di un passato che non esiste più. Almeno per ora.

Porterei via, allora, la lotta profondamente umana per la nostra sopravvivenza. Per una sopravvivenza che non può dirsi solo fisica, bensì psichica e relazionale.

Francesca Carubbi
 

sabato 11 aprile 2020

Di lacrime nascoste e nodi in gola






“Oh, guarda guarda!

Vedete anche voi quello che vedo io?

Quel bambino piange forte forte

Per fortuna io so che cosa bisogna fare di così tante lacrime”

Sabine De Greef – Lacrime che volano via
 




Il mio lavoro è fonte di ispirazione. Nella mia mente nascono, così, riflessioni e interrogazioni circa le storie che ascolto. 

Una di queste riguarda il posto delle lacrime nella nostra vita. Da qui, penso sempre si più che di lacrime non ce ne siano mai abbastanza per onorare il nostro dolore. E molte di queste vengono rinchiuse in nodi così stretti da non riuscire più a scioglierli. Groppi in gola, si chiamano.

Sensazioni di una chiusura ermetica che parla dell’estenuante lotta tra una parte di noi, che deve essere per forza sempre forte, e un’altra che vorrebbe rompere le dighe del pianto.
 E l’aspetto più sconcertante è che molti clienti non si sono mai chiesti, prima del loro percorso di psicoterapia, il perché di questo blocco. 

Non si sono mai legittimati il perché della "sepoltura" delle loro sofferenti lacrime. Sì, perché piangere non può essere considerato solo un bisogno, bensì una vero e proprio desiderio, spesso declinata con la frase “Dottoressa, vorrei tanto piangere ma non riesco” oppure “Sento che stanno per uscire le lacrime, ma faccio in modo che non avvenga”.

Ecco: il dovere si oppone all’esaudimento di una spinta alla libertà esperienziale: emozionale, fluida, aperta a tutte le emozioni, comprese quelle più difficili da tollerare. Una progressiva apertura dignitosa al dolore, senza vergogna e senso di colpa.

Sono infatti i profondi vissuti di denigrazione che impediscono la lacrima: un biasimo vissuto, spesso, durante l’infanzia, quando il cliente bambino si è identificato, progressivamente, con i giudizi genitoriali.
Quando ha imparato che “un bambino forte non piange!”. Quando ha sentito costantemente “Guardati allo specchio! Non fai altro che piangere!” o “Sii forte! Cosa piangi a fare?”. Quando ha trasformato tutto questo in “Non devo piangere! Perché sono un bambino forte!”

E, allora, tutte queste lacrime che non hanno trovato un posto, si sono , mano a mano, prosciugate o trasformate in sintomi che, nonostante un apparente non detto, hanno molto da dire e raccontare.
Lacrime che, a fronte di tutto ciò, non aspettano alto di essere “cullate dolcemente, molto dolcemente” (De Greef, 2009).

© Francesca Carubbi