domenica 16 agosto 2020

Cosa siginfica, per me, volersi bene

 Fermarmi. Non l'ho mai fatto sino a poco tempo fa.

Sempre di corsa. Sempre lì, a cercare in modo onnipotente e illusorio, di tappare i vuoti e le ansie quotidiane. Nonostante mi sentissi sopraffatta, iperstimolata e soverchiata dalle responsabilità e dal tran tran di tutti i giorni. Oggi, al contrario, ho scoperto quanto la routine, quella benefica, fatta di ritmi calmi e costanti, sia cosa ben diversa dal ritmo insostenibile e inarrestabile. Soprattutto, inarrivabile. Ho sempre pensato, a torto, che tutti i miei sforzi sarebbero stati, un giorno, ricompensati. Che sarei giunta a quell'ideale di perfezione che ho sempre vagheggiato: essere una donna perfetta, una madre sempre comprensiva e attenta. Attualmente, ho appreso quanto la perfezione sia, paradossalmente, più che la somma dei propri difetti: un senso di globalità intrisa di sfumature, di elementi non sempre combacianti, ma che ci caratterizzano in modo univoco.

Respirare. Non diamo mai troppa importanza al respiro. Al pneuma. Al nostro diaframma. Chi pratica Yoga, meditazione mindfulness, sa bene quanto il respirare in maniera profonda sia un toccasana per ridurre lo stress e per vivere, con meno tensione, il qui è ora. Il respiro, inoltre, ci riconnette con il nostro corpo e il nostro sé . Il respiro ci fa sentire interi quando crediamo di essere a pezzi.

Ascoltarmi. Ascoltare la propria pancia, le proprie emozioni viscerali: "Come mi sento oggi?", "Cosa sto provando in questo momento?". Ascoltarmi, senza giudizio, significa, per me, dare dignità al mio sentire, bello o brutto che sia. Significa onorare la mia Saggezza Organismica (Rogers, 1951).

Attendere. Ho sempre pensato che la mia serenità dipendesse dall'anticipare ed esaudire, in modo subitaneo, i bisogni degli altri. Quanto mio sbagliavo! Sto imparando, in tal senso, seppur con fatica, a riconoscere sempre più il mio bisogno smodato di controllo. Di totale controllo e di parvente sicurezza. Il non aspettare, nella mia esperienza, ha sempre significato difendermi dall'ignoto, dall'imprevedibilità: aiutare sempre e comunque l'altro significava non sentire le paure legate ai miei fantasmi alle mie ferite ancora sabguinanti. Imparare ad attendere è un modo per curare il mio dolore.

Gratificarmi e nutrirmi. Sto apprendendo il piacere di ciò che mi rende appagata e felice. Mi nutro di momenti di "peak experience" (Maslow, 1962): leggere, scrivere, camminare, contemplare, gustare, odorare, toccare. Adoro farmi del bene con piccoli piaceri: un bel libro, la stesura di un nuovo libro o articolo, una lunga e silenziosa camminata, la mia musica classica, le luci soffuse, un buon bicchiere di vino, l'aroma del caffè, il piacere dei sensi e sessuale, le mie tisane, l'ombra di un albero, il silenzio della campagna, la meditazione... insomma, cerco di nutrirmi di tutto ciò che possa promuovere il mio senso di benessere.

Accettarmi. Accettare la mia ipersensibilità, , la mia suscettibilità, la mia suggestionabilità. Il fatto che, talvolta, faccio ancora tanta fatica a porre dei limti, a non sentirmi così dipendente da frondermi con l'altro. La mia ansia, i miei sbalzi di umore, il mio sconforto, le mie esplosioni rabbiose. Le mie lacrime, le mie paure e ossessioni. Sto imparando, in soldoni, ad accettare la mia Ombra che altri non è che un pezzo fondamentale della mia Umanità..

Sto apprendendo, allora, a fare delle mie ferite e della mia singolarità la mia Tendenza Attualizzante (Rogers, 1980).

Francesca Carubbi

www.psicologafano.com 

www.alpesitalia.it 

Nessun commento:

Posta un commento