domenica 28 novembre 2021

Pandemia: dalla Crisi al Cambiamento del nostro Sé

 L’esperienza del Coronavirus - eccezionalmente tremenda nella sua drammaticità - ci ha fatto sprofondare in un abisso; ci ha mostrato la potenza della Crisi di creare rilevanti fratture interiori (Rogers, 1951) che ci pongono questioni esistenziali; domande a cui non sempre riusciamo a dare una risposta; interrogativi circa il senso della nostra esistenza.

La Covid ci ha fatto e ci sta facendo riscoprire la nostra umana fallacia; la nostra autentica vulnerabilità: come quell'alga, descritta da Rogers (Rogers, 1980) tenacemente aggrappata allo scoglio, per non soccombere alla forza dell’Oceano Pacifico.

Ecco, allora, emergere, dalle storie che ascolto in Studio, lo sforzo immane di tante “alghe” di resistere alla furia di tutte quelle impetuose tempeste che hanno travolto la loro Vita, con il conseguente vacillare della loro Tendenza Attualizzante (Rogers, 1980).

Una resistenza che non sempre riesce a trasformarsi in sana resilienza, per il fatto che vorrebbe distorcere e negare alla coscienza (Rogers, 1951) una realtà incontrovertibile, innegabile: che la Vita - la Vita Piena (Rogers, 1961), ossia quella contraddistinta da una progressiva e irreversibile apertura all'esperienza - non può bypassare la sua controparte: la Morte.

Perché la Crisi interiore ha sempre a che fare con essa.

Che sia concreta o simbolica, la parola Morte, tuttavia, è impronunciabile per molti clienti, perché terrifica e parimenti angosciante. 

La Morte non può avere asilo in una società - quale la nostra - contraddistinta dalla ricerca dell’edonismo a tutti i costi e dall'idea illusoria di onnipotenza narcisistica e di “immortalità”.

La Morte è scomoda e, con lei, tutto ciò che la evoca: la tristezza, il languore, la lentezza, i silenzi, le pause, lo scorrere del tempo, il vuoto.

Ph: Gustave Doré

Con la pandemia, tuttavia, siamo cambiati. O, perlomeno, il virus ha fatto da detonatore per l’esplosione di un Mondo sommerso. Il nostro.

Una realtà psichica che, sino a marzo 2020, non credevamo di possedere.

Un Sé che, volenti o nolenti, non aspettava altro che emergere. Con tutta la sua forza: “È come un Big Bang”, così mi ha detto una cliente per descrivere la nuova percezione di Sé: destabilizzante ma profondamente vera.

Un Sé che vuole fermarsi, che necessita di entrare davvero nel proprio Bosco interiore.

Un Sé, sì ferito, ma che desidera sapere chi sia davvero.

Un Sé che, come ogni eroe fiabesco che si rispetti, decide di intraprendere un lungo viaggio di conoscenza, entrando, in modalità dantesca, nella propria Selva oscura.

Un Sé saggio che sa che può rinascere ed essere resiliente solo nel momento in cui può riconoscere che la sua essenza è proprio come quell'alga aggrappata allo scoglio del Pacifico: ossia che può contare sulla sua tenacia solo entrando a patti, paradossalmente, con la sua impotenza e precarietà.

Come a dire: per scoprirci Umani, quindi vivi e palpitanti, dobbiamo necessariamente accorgerci di essere mortali.


Francesca Carubbi

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domenica 12 settembre 2021

Ode al Cane, ossia quando la vita ricomincia insieme

 




Ho adottato un cane. Un cane adulto. Chicco, infatti, ha cinque anni e un nome già dato. Adottare un cane non è assolutamente come comprarlo. È molto di più.

Significa regalare una seconda opportunità - a noi e a lui - a occhi chiusi: lui non ci conosce e viceversa.

L’adozione, in tal senso, rappresenta una scommessa, e penso, inoltre, che per fare questo passo occorra tanto ma tanto desiderio e senso di responsabilità.

Io e Chicco, probabilmente, ci siamo scelti e non è un caso che il mio nomignolo in casa dei miei sia proprio Chicca.

Sento, da qui, che la mia Chicca piccina si rispecchi tantissimo in Chicco: entrambi abbiamo avuto una vita abbastanza complessa, difficile e a tratti dolorosa.

Io e Chicco, allora, rappresentiamo una seconda possibilità. Una tenera Cura per la propria Tendenza Attualizzante ferita (Rogers, 1951).

Quando ci guardiamo assieme, mi vengono in mente Carl Rogers e la sua ipotesi secondo la quale due esseri viventi, attraverso un incontro significativo, possano alleviare le proprie solitudini: due anime che, insieme, alleviano le proprie sofferenze.

In appena una settimana Chicco si è affezionato alla nostra famiglia e noi tantissimo a lui: quando ti svegli, sai già che la sua coda scodinzolerà e che i suoi occhi ti guarderanno con tanto amore.

Ma il momento che preferisco con lui è la passeggiata: puoi avere la giornata più storta al mondo, ma sei sicuro che, grazie alla sua compagnia, supererai ogni malumore.

Perché i cani sono così: ti accettano davvero per ciò che sei in un modo così incondizionato da far soggezione.

Ti guardano davvero come se fossi un tramonto: il più bello che ci sia.

Perciò trovo non solo ripugnante bensì criminale abbandonarli: perché è uno dei tradimenti più meschini che si possa fare alla loro lealtà.

Quando, allora, si decide di accogliere un cane nella propria vita, occorre farlo con cognizione di causa, con la consapevolezza che si dovrà dedicargli molto tempo e molte attenzioni: personalmente, per molti anni non ho avuto un cane in casa, per il fatto che non avevo i tempi e spazi giusti da offrirgli e, probabilmente, avrebbe sofferto.

Accogliere un cane è un profondo dono e una meravigliosa opportunità empatica.

Benvenuto Chicco.


Francesca Carubbi
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mercoledì 1 settembre 2021

"Il Buco" (Anna Llenas - Gribaudo Editore): un albo illustrato per prend...


Come psicoterapeuta sono testimone di tante storie. Storie di cui mi prendo Cura. Storie felici e non. Storie dove i buchi si fanno, via via, sempre più profondi. Buchi che parlano di mancanze che fanno male. Buchi che non si potranno mai riempire ma intorno ai quali si possono ricamare preziose rinascite. "Il Buco" rappresenta, per me, la metafora ideale di tutto ciò e l'esempio di come l'Albo illustrato, proprio come la Fiaba, possa essere utilizzato come strumento di facilitazione in psicoterapia.

domenica 4 luglio 2021

Tra bauli e ricordi: la psicoterapia come una danza tra il togliere e il conservare

 


I nonni lo sanno bene: sanno cosa va tolto e cosa no.

E ciò che va conservato viene riposto, con cura, dentro scatole e bauli.

 Che sanno di lavanda, di canfora. Di un profumo inconfondibile.

Le stesse fotografie, ingiallite e in bianco e nero, parlano di quella grazia nel preservare dal tempo inesorabile, le testimonianze.

I nonni lo sanno. Sanno quanto sia importante trasmettere i ricordi. Anche quelli che fanno male. Perché da questi si impara.

I nonni sanno anche quando e cosa gettare vai. Cosa togliere. Cosa non serve più.

Nonni come inconsapevoli psicoterapeuti.

Checché se ne pensi o se ne dica, infatti, la psicoterapia è un'arte, difficile e meravigliosa, tra il togliere e il conservare.

Un togliere, inteso come lo spogliarsi del superfluo; di eredità che non ci riguardano; di problemi e questioni non nostri.

Un togliere, inteso come lasciare la presa. Anche se fa male. Anche se ci devasta e ci destabilizza. Ma che, poi, ci salva. Inesorabilmente.

Un conservare, inteso come appropriarsi di ciò che ci riguarda; di ciò che è sempre stato nostro ma non ce ne siamo mai resi conto: delle nostre emozioni, preziose bussole interiori; dei nostri valori; delle nostre idee sul mondo e sulla realtà che ci circonda.

Un conservare, inteso nel dare onore a ricordi ricostruiti, rimodellati, redivivi.

Un conservare, inteso come riscoperta di Sé; della nostra autenticità; della propria libertà responsabile di scelta. Nel bene e nel male.

Un riappropriarsi della propria Storia. Della propria Fiaba personale.

La psicoterapia, allora, è un ritorno a Casa. Un ritorno fatto di tagli e cuciture. Di ferite e cicatrici. Di ostacoli, cadute e tentativi di risalire la china (Carubbi, 2012).

La psicoterapia è l'arte sapiente del riconoscere ciò che va messo via, come ci insegna Ligabue, e ciò che, al contrario, va custodito con Amore.


Francesca Carubbi

Psicoterapeuta e Autrice

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domenica 21 febbraio 2021

Cosa ci insegna il Dolore

È difficile trovare un titolo a ciò che sto per scrivere. Perché le emozioni da descrivere sono tante; intense; viscerali. Vissuti che ho percepito, con forza, leggendo “semplicemente” un libro. Un libro davvero piccolo ma, allo stesso tempo, grande nel suo potere evocativo.

Non a caso il suo Autore è il Premio Nobel per la Letteratura del 2001.

“Dolore” di Naipul è un'opera che, nella sua essenza, sa entrarti nel cuore, nelle ossa.

Un libro che non ho scelto ma che mi ha scelto. Rapita, sin dal titolo.

Probabilmente perché, per un misterioso e complesso meccanismo di sincronicità, già dalle prime parole, ho percepito, in modo autentico, che quel Dolore, così magistralmente onorato, è un po' anche il mio.

Scrivo spesso di dolore. Non perché mi ritenga una persona remissiva, “masochista”, anzi!

Ma per il fatto che, volente o nolente, il dolore è entrato in modo prepotente nella mia vita.

Chi ha provato dolore sa bene di cosa sto parlando: è una sensazione così paralizzante, perlomeno all'inizio, da non riuscire a trovare una via d'uscita. Poi, però, inizi a comprendere che, per uscire da quello stato di scoramento, l'unica arma che hai, paradossalmente, è proprio quella di entrare in quel tunnel fatto di tremori, angoscia, ansia per il futuro e chi più ne ha e più ne metta. Come ci fa apprendere lo stesso Naipul, infatti,  “Il dolore è sempre in agguato. Fa parte del tessuto stesso della vita. E' sempre sulla soglia”.

Probabilmente è questo l'insegnamento più grande: non si può eludere il dolore. Cerchiamo in tutti i modi di farlo, pensando, erroneamente, di non trovarlo mai nel nostro cammino.

Con il dolore, infatti, siamo portati a pensare, in modo illusorio, che non riguarderà mai la nostra esistenza. È sempre roba di altri. E, se è roba di altri, a noi fa meno paura.

Naipul ci insegna, con profonda umiltà e sconvolgente semplicità, che il dolore non va distorto e negato ma visto per ciò che è, non chiedendosi se ciò che proviamo sia giusto o sbagliato: non c'è un peso specifico per il dolore; come scrivevo tempo fa, il dolore non si può misurare in grammi. Naipul, in questo, si mostra, non volendo, profondamente rogersiano, in quanto, attraverso la freschezza del suo stile narrativo, diviene profondamente empatico con questo vissuto, così spesso percepito come scomodo. E, allora, grazie a Naipul sappiamo che si può onorare il dolore. Certo che sì!

Che sia il dolore legato al lutto per la perdita del proprio papà o per la scomparsa del proprio fratello piuttosto che per la dipartita di Augustus - il gatto a cui era profondamente affezionato -, il dolore ha una giustezza incommensurabile. Nessuno, quindi, può dirci quando provare dolore: solo la nostra Saggezza interiore che, sino a prova contraria, è l'unica vera esperta in questioni di cuore. E la scrittura può essere un suo valido alleato per sentirsi interi quando ci sembra di essere a pezzi.


Francesca Carubbi

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domenica 31 gennaio 2021

La psicoterapia come possibilità di so – stare

 

Vassilissa la Bella di Bilibine

Sostare; so – stare. Fermarsi e saperci stare. Saper stare, sostare appunto, nel tumulto della nostra vita; nei punti interrogativi che puntellano la nostra esistenza.

Arrestarsi ma non immobilizzarsi, né tantomeno sfuggire alle inquietudini; alle paure; alle domande.

Saper soffermarsi, guardandoli e attraversandoli, sui propri punti interrotti; sulle crepe; sui contorni frastagliati della nostra esperienza, per poi poter offrire loro un altro senso.

Saper so – stare nelle tante prove che la vita ci presenta, accettandone l’inevitabile fatica che comportano. Come Vassilissa di Afans'ev, messa continuamente alla prova dalla sua Baba Jaga, apparentemente mostruosa ma profondamente saggia.

Ecco che a cosa può assomigliare la psicoterapia: ad un viaggio possibile nei meandri della nostra psiche, dove noi siamo gli eroi di questa avventura.

Un viaggio di cui si apprende man mano la direzione ma non la destinazione. Una possibilità di so – stare nel buio, nelle incognite del bosco che stiamo attraversando.

Un viaggio grazie al quale si inizia a dare nuovi significati alle nostre esperienze passate che ancora incidono nel nostro presente, che può essere costruito, sentito e pensato all’interno di una nuova percezione: più nitida, meno sfuocata, più reale.

Proprio stamane ho potuto “ricucire” un pezzettino, grazie ad un’intuizione, del mio passato; di un senso di angoscia che ho sempre ritenuto essere, erroneamente, un’emozione del “qui e ora”.

Quando ero piccola, infatti, capitò un fatto il cui ricordo, ancora oggi, mi provoca turbamento: avrò avuto circa otto anni ed ero a scuola. Durante il rientro pomeridiano, precisamente. Fatto sta che, nel giocare con una pallina da tennis di un mio amichetto, questa cada fuori dalla finestra e vada a finire in uno strapiombo impossibile da raggiungere. Io entrai nel panico, perché pensavo di averla combinata davvero grossa.

Ecco come, proprio grazie alla mia psicoterapia, quella sensazione di ansia terribile abbia potuto connotarsi di un significato nuovo. Ho potuto, in altri termini, simbolizzare correttamente la mia esperienza del presente grazie ad un prezioso “fil rouge” che ha unito, pazientemente, il mio sé adulto e quello di Francesca, bambina colpevole e, proprio per questo, terrorizzata da una possibile tremenda punizione.

Ed è proprio questa corretta simbolizzazione (Rogers, 1951) che ha permesso la catarsi di questa mia emozione, subcepita e negata nel suo vero senso, e, soprattutto, la sua integrazione cognitiva (ibidem), facendomi sentire più libera nel mio esperire e meno impaurita nell’attraversare e so – stare nel mio bosco personale.

Francesca Carubbi

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