Sostare; so – stare. Fermarsi e saperci stare. Saper stare,
sostare appunto, nel tumulto della nostra vita; nei punti interrogativi che
puntellano la nostra esistenza.
Arrestarsi ma non immobilizzarsi, né tantomeno sfuggire alle
inquietudini; alle paure; alle domande.
Saper soffermarsi, guardandoli e attraversandoli, sui propri
punti interrotti; sulle crepe; sui contorni frastagliati della nostra
esperienza, per poi poter offrire loro un altro senso.
Saper so – stare nelle tante prove che la vita ci presenta,
accettandone l’inevitabile fatica che comportano. Come Vassilissa di Afans'ev, messa
continuamente alla prova dalla sua Baba Jaga, apparentemente mostruosa ma
profondamente saggia.
Ecco che a cosa può assomigliare la psicoterapia: ad un
viaggio possibile nei meandri della nostra psiche, dove noi siamo gli eroi di
questa avventura.
Un viaggio di cui si apprende man mano la direzione ma non
la destinazione. Una possibilità di so – stare nel buio, nelle incognite del
bosco che stiamo attraversando.
Un viaggio grazie al quale si inizia a dare nuovi
significati alle nostre esperienze passate che ancora incidono nel nostro
presente, che può essere costruito, sentito e pensato all’interno di una nuova
percezione: più nitida, meno sfuocata, più reale.
Proprio stamane ho potuto “ricucire” un pezzettino, grazie
ad un’intuizione, del mio passato; di un senso di angoscia che ho sempre
ritenuto essere, erroneamente, un’emozione del “qui e ora”.
Quando ero piccola, infatti, capitò un fatto il cui ricordo,
ancora oggi, mi provoca turbamento: avrò avuto circa otto anni ed ero a scuola.
Durante il rientro pomeridiano, precisamente. Fatto sta che, nel giocare con
una pallina da tennis di un mio amichetto, questa cada fuori dalla finestra e
vada a finire in uno strapiombo impossibile da raggiungere. Io entrai nel
panico, perché pensavo di averla combinata davvero grossa.
Ecco come, proprio grazie alla mia psicoterapia, quella
sensazione di ansia terribile abbia potuto connotarsi di un significato nuovo.
Ho potuto, in altri termini, simbolizzare correttamente la mia esperienza del
presente grazie ad un prezioso “fil rouge” che ha unito, pazientemente, il mio
sé adulto e quello di Francesca, bambina colpevole e, proprio per questo,
terrorizzata da una possibile tremenda punizione.
Ed è proprio questa corretta simbolizzazione (Rogers, 1951)
che ha permesso la catarsi di questa mia emozione, subcepita e negata nel suo
vero senso, e, soprattutto, la sua integrazione cognitiva (ibidem),
facendomi sentire più libera nel mio esperire e meno impaurita nell’attraversare
e so – stare nel mio bosco personale.
Francesca Carubbi
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