Avete presente la sensazione di dolore quando vi tagliate o
vi bruciate? Quel pulsare pungente della pelle, quel bruciore intenso che
sembra non passare mai?
Ecco. Le parole, quelle cattive che pesano come macigni,
possono provocare ferite e ustioni alla nostra anima.
Le parole avvelenate diventano giudizi gratuiti che
colpiscono alle spalle e che mirano al cuore.
I giudizi hanno questo potere: di sedimentarsi e diventare
verità inesorabili. Diventano voci interne, sadiche e senza pietà. I giudizi,
inoltre, sono voraci e sempre affamati. Per sopravvivere hanno bisogno di
nutrirsi della nostra bassa autostima, dello scarso valore che ci attribuiamo,
della nostra indegnità.
Anche se le cose sembrano andare bene, ecco che una vocina
subdola e strisciante ci suggerisce, come una eco molesta, che non ci meritiamo
legittime soddisfazioni personali o che, magari, non possiamo complimentarci
con noi stessi per un buon lavoro svolto.
Da dove nascono le parole giudicanti? Da molto lontano. E, soprattutto,
non da noi. I giudizi non sono nostri, non fanno parte del nostro bagaglio
genetico, ma li ereditiamo da altri.
I giudizi penetrano in noi tramite parole altre. Parole estranee e straniere, ma che, come ci
insegna Carl Rogers (1951), per non perdere l’amore e la considerazione di chi
si prende cura di noi e di chi vogliamo bene, facciamo nostre.
Le facciamo così tanto nostre che iniziamo a credere di
essere davvero come ci descrivono gli altri.
Le facciamo così tanto nostre che cominciamo a perdere la
nostra Bussola e a non aver più fiducia nella nostra Verità interiore.
Il giudizio inizia la sua opera nell’infanzia, quando
cerchiamo di raddrizzare e normalizzare, secondo i nostri desideri, valori e
bisogni, tutte le imperfezioni che
vediamo nel bambino, soprattutto quelle che hanno a che fare con il suo Modo di
Essere (Rogers, 1980): il bambino è troppo agitato o è troppo calmo; non ride
mai o ride spesso; è chiassoso o è taciturno; è molto timido o troppo estroverso
ecc.
L’Essere del bambino, inoltre, sempre in un’ottica
giudicante, è spesso inserito all’interno di uno schema valoriale basato sul
raffronto con altre esperienze, naturalmente diverse ma che vengono elevate a verità oggettiva, inappellabile
: “Vedì? Luca non piange come te!” o “Cerca di impegnarti come Sara a scuola…”
o, perché no?, “Giulia danza meglio di te…”
I confronti, infatti, sono la benzina elettiva dei giudizi:
sono parole che, mano a mano, si sedimentano nell’identità del bimbo, causando,
da qui, una progressiva identificazione con esse; identificazione che non
permette, ahimè, una facilitazione della sua unicità e irripetibilità in
qualità di Essere Umano.
Come risultato “il bambino impara ben presto che non può
avere fiducia in ciò che è veramente, in tutte le sue sfumature esistenziali,
ma che per essere amato e non abbandonato, deve rinnegare la sua vera natura e
adeguarsi alle richieste degli adulti” (Carubbi, 2018, p. 23).
Riassumendo, il giudizio, veicolato attraverso la parola
dura e senza appello, fa sì che il bambino venga considerato solo in modo condizionato (Rogers, 1951): i bambini
giudicati, allora, sono “bambini accettati condizionatamente, ossia a
condizione che esaudiscano i nostri tempi, i nostri bisogni e i nostri desideri”
(Carubbi, 2018, p. 23).
Allora, quando siamo davanti a un bambino, ricordiamoci, come ci ricorda Alda Merini,
di scegliere "con cura le parole da non dire”.
© Francesca Carubbi
www.alpesitalia.it
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