sabato 6 giugno 2020

Di giudizi, parole e altri macigni


Avete presente la sensazione di dolore quando vi tagliate o vi bruciate? Quel pulsare pungente della pelle, quel bruciore intenso che sembra non passare mai?

Ecco. Le parole, quelle cattive che pesano come macigni, possono provocare ferite e ustioni alla nostra anima.

Le parole avvelenate diventano giudizi gratuiti che colpiscono alle spalle e che mirano al cuore.

I giudizi hanno questo potere: di sedimentarsi e diventare verità inesorabili. Diventano voci interne, sadiche e senza pietà. I giudizi, inoltre, sono voraci e sempre affamati. Per sopravvivere hanno bisogno di nutrirsi della nostra bassa autostima, dello scarso valore che ci attribuiamo, della nostra indegnità.

Anche se le cose sembrano andare bene, ecco che una vocina subdola e strisciante ci suggerisce, come una eco molesta, che non ci meritiamo legittime soddisfazioni personali o che, magari, non possiamo complimentarci con noi stessi per un buon lavoro svolto. 

Da dove nascono le parole giudicanti? Da molto lontano. E, soprattutto, non da noi. I giudizi non sono nostri, non fanno parte del nostro bagaglio genetico, ma li ereditiamo da altri. 

I giudizi penetrano in noi tramite parole altre.  Parole estranee e straniere, ma che, come ci insegna Carl Rogers (1951), per non perdere l’amore e la considerazione di chi si prende cura di noi e di chi vogliamo bene, facciamo nostre.

Le facciamo così tanto nostre che iniziamo a credere di essere davvero come ci descrivono gli altri.

Le facciamo così tanto nostre che cominciamo a perdere la nostra Bussola e a non aver più fiducia nella nostra Verità interiore.

Il giudizio inizia la sua opera nell’infanzia, quando cerchiamo di raddrizzare e normalizzare, secondo i nostri desideri, valori e bisogni, tutte le imperfezioni che vediamo nel bambino, soprattutto quelle che hanno a che fare con il suo Modo di Essere (Rogers, 1980): il bambino è troppo agitato o è troppo calmo; non ride mai o ride spesso; è chiassoso o è taciturno; è molto timido o troppo estroverso ecc.

L’Essere del bambino, inoltre, sempre in un’ottica giudicante, è spesso inserito all’interno di uno schema valoriale basato sul raffronto con altre esperienze, naturalmente diverse  ma che vengono elevate a verità oggettiva, inappellabile : “Vedì? Luca non piange come te!” o “Cerca di impegnarti come Sara a scuola…” o, perché no?, “Giulia danza meglio di te…”

I confronti, infatti, sono la benzina elettiva dei giudizi: sono parole che, mano a mano, si sedimentano nell’identità del bimbo, causando, da qui, una progressiva identificazione con esse; identificazione che non permette, ahimè, una facilitazione della sua unicità e irripetibilità in qualità di Essere Umano.

Come risultato “il bambino impara ben presto che non può avere fiducia in ciò che è veramente, in tutte le sue sfumature esistenziali, ma che per essere amato e non abbandonato, deve rinnegare la sua vera natura e adeguarsi alle richieste degli adulti” (Carubbi, 2018, p. 23).

Riassumendo, il giudizio, veicolato attraverso la parola dura e senza appello, fa sì che il bambino venga considerato solo  in modo condizionato (Rogers, 1951): i bambini giudicati, allora, sono “bambini accettati condizionatamente, ossia a condizione che esaudiscano i nostri tempi, i nostri bisogni e i nostri desideri” (Carubbi, 2018, p. 23). 

Allora, quando siamo davanti a un bambino, ricordiamoci, come ci ricorda Alda Merini, di scegliere "con cura le parole da non dire”. 

© Francesca Carubbi
www.alpesitalia.it




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