lunedì 9 marzo 2020

Chi non si ferma è perduto

Inizio da un gioco di parole per introdurre la mia riflessione di oggi. 
Premetto che abito in una zona, definita, arancione. Come, molti altri vivo in una situazione di limite: limitazioni nel movimento e nella socializzazione. 
Recependo la necessità di fermarmi, lo sto facendo. Quindi, basta per ora a cene, cinema, aperitivi...Ossia a tutto ciò che potrebbe portare ad un assembramento di persone. Anche la mia professione da psicologa è stata, inevitabilmente, impattata da tutto questo: ho dovuto pensare ad alternative di continuità terapeutica online per chi è fragile; devo disinfettare il mio studio in continuazione e scaglionare i colloqui, affinché possa contrastare, nel mio potere e possibilità, la diffusione del contagio.
Personalmente, trovo questa necessità di ridimensionamento non solo necessaria, ma profondamente etica: sono una fervida sostenitrice della Comunità come ponte di riconoscimento reciproco, come ci insegna il sociologo Devastato e, da qui, credo che stiamo vivendo la messa alla prova di quanto le nostre Comunità possano essere davvero una potente Rete di protezione, o meno.
Rete sociale, quindi, come scudo dei più fragili, come difesa e sostegno di un Sistema Sanitario, tra i migliori al Mondo, ma che sta soffrendo come non mai.
Mi aspettavo, da qui, che la regola, umana, responsabile e giusta, fosse recepita, in modo incondizionato dai più, in quanto da rogersiana, ho sempre pensato - e penso tuttora - che la Persona sia un "agente di scelta libero e responsabile" (Rogers, 1951) e, che, quindi, il bene collettivo fosse considerato superiore a quello individuale.
Invece, ahimé, ho appreso che non è sempre così. Nonostante i proclami, le spiegazioni sulle motivazioni sulla necessità di stare a casa, molte persone hanno continuato la loro vita come se nulla fosse. No solo... Senza rispettare le distanze sociali di sicurezza. Ammassati in luoghi affollati, sia dentro che fuori, in barba al pericolo del contagio.
Rogers ha sempre sostenuto che l'empatia (Rogers, 1980), in fin dei conti, fosse un modo di essere poco apprezzato. Ora, capisco il perché.
Perché, chi non riesce a fermarsi, a rispettare il senso etico e civico, mostra, ai miei occhi, una mancanza di empatia, di riconoscimento; quel "come se" che permette, appunto, di arrestarsi, pensare e agire per il bene proprio e dell'altro.
In tal senso, pensando alle persone che, in questa condizione critica e delicata,  non si fermano, mi sovviene un termine che si usa nel campo delle Dipendenze Patologiche: "Addicted",che significa, appunto, dipendente. Il dipendente, infatti, non si pone limiti responsabili, poiché mette in campo  comportamenti compulsivi e pervasivi - senza interrogarsi sulle possibili conseguenze -, legati al desiderio di ricerca della sostanza o di un determinato comportamento da addiction. 
Al di là delle categorie diagnostiche che definiscono cosa sia una dipendenza, da un punto di vista di pura osservazione, si può notare quanto, attualmente, questa difficoltà di sostare, di restare, di fermarsi, possa assomigliare ad un comportamento di Addiction: non si può non sciare, non si può non viaggiare, non si può non andare al bar per un aperitivo o per una cena...E, potremmo continuare ancora e ancora. Come a dire chi non si ferma è perduto.

© Francesca Carubbi

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