Diciamoci la verità…Per alcuni la psicoterapia è ancora un
tabù. C’è, a tutt’oggi, la convinzione che andare da uno psicoterapeuta
significhi, tout court (e, sinceramente, anche in questo caso, non so cosa ci
sia di allucinante), essere “matti” o soffrire di qualche patologia
psichiatrica. Mah! Io, a chi è perplesso circa l’utilità del nostro ruolo nel
Mondo, rispondo con un paragone medico: “se hai un arto rotto, vai,
giustamente, dall’ortopedico, no? E, allora, se hai una frattura dell’anima,
perché hai paura di andare da un collega?”.
Si può ben immaginare, quanto, da qui, recarsi da uno
psicoterapeuta non sia poi tutta questa cosa strana.
Eh, sì! Perché anche l’anima si ammala, si può fratturare.
Proprio come un arto. Ma il dolore dell’anima è più subdolo, perché, molte
volte, è silenzioso, strisciante. E, allo stesso tempo, molto straziante nei
silenzi che porta con sé.
A dirla tutta, una delle “condizioni necessarie e
sufficienti” rogersiane (Rogers, 1957), ai fini di una presa in carico
terapeutica, è proprio quella di essere “matti”, ossia di sentire una frattura
interiore, un qualcosa che non torna nell’equilibrio, apparentemente, coerente
della nostra esistenza. Paradossalmente, si sente la necessità di chiamare uno
psicoterapeuta proprio nel momento in cui la troppa normalità, l’estenuante e
ossessivo bisogno di coerenza interna (Rogers, 1951) ci intrappola, ci soffoca.
Eh, guardate un po’… La stranezza, ossia il sentirsi non combacianti, il
percepire un continuo girare a vuoto, il perpetrare gli stessi errori e
meccanismi sofferenti, è l’elemento imprescindibile per iniziare un percorso di
conoscenza personale.
Non solo! La terapia personale non serve assolutamente per
tornare alla rigida normalità, poiché, come scritto più sopra, è la sua estremizzazione
a farci ammalare.
La psicoterapia, allora, è un certosino e paziente lavoro di
accettazione di sé e di ricerca di autenticità (Rogers, 1957): unica nella sua strana o estranea singolarità.
Personalmente, ai miei clienti, dico sempre che si ritorna a
respirare, dopo tanti anni di apnea, di controllo illusorio della propria vita.
La psicoterapia funziona quando il Vero Sé (Rogers, 1951) e
il Falso Sé, la sua struttura rigida, possono incontrarsi con minore scontro e
dolore, in modo soggettivo, unico e irripetibile. Quando si inizia a integrare,
per utilizzare una metafora fiabesca, il nostro anatagonista (Carubbi, 2018):
strega, mostro o bestia che sia.
Per utilizzare le
parole del bravissimo attore Elio Germano, il
lavoro psicoterapeutico permette di amare le proprie parti storte,
sbagliate, quelle che vogliamo eliminare o emarginare, al fine di scoprire ciò
che siamo, il nostro peculiare “Modo di Essere” (Rogers, 1980) strano, perché singolare, iniziando a vivere, se necessario,
come ci ricorda Rogers (1961), “al di là delle aspettative degli altri”
(ibidem), seguendo con coraggio la propria fiducia interna, le proprie emozioni,
valori e costruzioni della realtà (Rogers, 1980).
Allora, divenire strani, particolari e unici, in soldoni, quell’essere
“matto” che tanto aborriamo, è lo scopo principe di questa bellissima arte.
© Francesca Carubbi
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