“Non cercate di essere
buoni, siate integri!”
Picture: ©Walter Crane |
C. G. Jung
Carl Rogers (1951) per spiegare l’incongruenza, ossia la
distorsione e la negazione dei nostri vissuti emotivi, descrive il meccanismo
della gelosia di un ipotetico bambino verso il proprio fratellino, appena nato.
Cosa può provare, infatti, un bimbo quando scopre che dovrà
dividere e condividere il suo spazio e il suo tempo con un nuovo essere?
Be’, al di là delle visioni romantiche della fanciullezza, il
bimbo in questione proverà dei sentimenti ambivalenti: amore, tenerezza, ma
anche gelosia e competizione verso il nuovo arrivato.
Senza dimenticare, inoltre, la paura rispetto a “ritorsioni”
affettive da parte dei genitori nel caso in cui suddette emozioni dovessero
emergere.
Da qui, seguendo la teoria rogersiana dello sviluppo del Sé
(ibidem), potremmo assistere, sempre che l’ambiente non faciliti una presa di
contatto profonda con le emozioni scomode, ad una progressiva costruzione, nel
bambino, di una rigida Struttura (ibidem) – ciò che definiamo Falso Sé – che
inizierà a fare proprie le valutazioni genitoriali e costruirà la sua esperienza
“come dovrebbe essere” secondo le loro aspettative. In soldoni, nonostante il
suo Vero Sé, o Saggezza Organismica (ibidem), gli suggerisca che ciò che prova
è degno di fiducia, il suo Sé rigido gli farà credere che tutto ciò è
profondamente sbagliato e censurabile. Non solo! Ben presto, inizierà a
costruire la sua esperienza, in termini di idee e emozioni, identificandosi con
i valori e dettami familiari, arrivando a sostenere che tutto ciò che prova è “farina
del suo sacco”!
Ma, sappiamo bene come le emozioni non simbolizzate
correttamente (ibidem), quindi non sentite per ciò che realmente sono,
cercheranno, in tutti i modi, una via di uscita. Come? Attraverso la nascita di
uno conflitto interno – di una nevrosi – che viene percepito attraverso la
nascita di “uno stato di ansia e tensione”, di incongruenza, appunto, tra ciò
che “vorrei essere” e ciò che, al contrario, “dovrei essere” per non perdere l’accettazione
e l’amore dei miei genitori.
Da qui, è interessante osservare, in campo psicoterapeutico,
quanto suddetto vissuto di competizione, rimanga, a volte, sopito per molto
tempo. Ma come, allo stesso tempo, una sua esplorazione porti all’elaborazione
sia del conflitto soggiacente, nonché di una ristrutturazione di vecchie
alleanze familiari e delle relative posizioni rispetto alla famiglia stessa. Cosa
intendo per posizioni? Intendo il ruolo che ogni membro può assumere,
inconsapevolmente, all’interno degli equilibri familiari. Ciò che Boszormeny
Nagy (1988) definisce “lealtà invisibili”. Possiamo assistere, allora, al “capro
espiatorio”, al “ribelle”, piuttosto che al “responsabile”: funzioni che,
seppur rigide e inflessibili, determinano l’equilibrio di un determinato
sistema. Possiamo ben comprendere, allora, seguendo questo ragionamento, quanto
una persona, che si è sempre identificata, ad esempio, con la funzione
responsabile della famiglia, faticosamente potrà accedere, senza una
facilitazione, a quei vissuti negati che parlano di rabbia, gelosia e invidia…Vissuti,
sì difficili e scomodi, ma la cui integrazione diviene essenziale per la crescita personale e per lo sviluppo di
una propria autonomia psichica.
In tal senso, una fiaba che evoca molto questi vissuti è “Belinda
e il Mostro” (Montale Pistoiese), dove Belinda, che “non era solo bella, ma buona e modesta ed assennata”, sembra
rappresentare proprio quel ruolo dimesso e accondiscendente che rischia,
tuttavia, di “soccombere” dinanzi all’indolenza delle sue sorelle (Carubbi,
2018), Assunta e Carolina, “superbe,
caparbie e dispettose, e per di più sempre cariche d’invidia”, che, nella
loro competitiva gelosia, tentano, come tutti gli antagonisti delle fiabe che si rispettino
(Propp, 1926), di metterle i bastoni tra le ruote. Belinda, infatti, “nella sua faticosa lotta interiore, inciampa,
cade, tende a non fidarsi di sé […] ha paura di ciò che sente” (Carubbi,
2018, p. 33).
Di cosa ha paura Belinda? Di vedere nelle sorelle quella
parte di sé che ha sempre negato alla coscienza. Quel lato ombra che non ha mai
accettato: la sua rabbia, la sua invidia, la sua competizione… Le sue parti
meno nobili, così ben rappresentate, al contrario, sia dalle sue sorelle,
nonché dal Mostro.
Le sorelle e il Mostro sono, allora, l’Altro che si aborre, perché
strano, incomprensibile, sfuggente e arcano; ma questo “Altro” altri non è che
se stessa.
© Francesca Carubbi
psicologa e psicoterapeuta, Fano
Autore e Direttore di Collana, Alpes Italia, Roma
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